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ALESSANDRO LEOGRANDE. INVESTIGATORE DEL NOSTRO TEMPO

da Il Sole 24 Ore del 3 dicembre 2017 

di Goffredo Fofi

La morte improvvisa di Alessandro Leogrande, il giovane scrittore e sociologo tarantino ben noto negli ambienti dell’intervento sociale e delle riflessioni sullo stato della nostra società, ha strappato alla cultura italiana uno dei più promettenti tra i suoi intellettuali, per una volta non solo uno studioso originale e profondo, un investigatore preciso di avvenimenti cruciali del nostro tempo, ma anche un attivista molto presente in organizzazioni di resistenza o di lotta.

Aveva quarant’anni e si era laureato a Roma in scienze politiche con una tesi su Michael Walzer e la rivista statunitense «Dissent» e lavorando contemporaneamente alla rivista «Lo straniero» sin dalla sua nascita, diventandone in breve tempo vice direttore.

Lo avevo conosciuto a Taranto ancora liceale su consiglio di Giancarlo De Cataldo, quando cercavo giovani collaboratori per la rivista che precedette «Lo straniero», «La terra vista dalla luna». Vi era in essa una sezione, «Suole di vento», affidata a collaboratori giovanissimi tra i quali egli aveva trovato amici e sodali, cresciuti all’attenzione ai problemi della loro generazione e a quelli del mondo in cui stavano entrando, forse l’ultima generazione ancora attenta non solo al “sociale” e al “culturale” (prevalentemente) ma anche al “politico”.

Nonostante la svolta in atto in quegli anni, la grande mutazione dell’economia con tutte le sue conseguenze nella società, non ultima, per quel che riguarda le recenti generazioni, la predominanza della cultura sulla produzione e l’alienazione da web. Leogrande aveva dalla sua un genitore, un insegnante, che fu tra i primi a occuparsi dell’Albania e dei suoi migranti tramite la Caritas tarantina, e ne derivò una particolare sensibilità per i problemi della propria città e in generale del sud, da tardo meridionalista convinto. In verità, il modello intellettuale al quale mi pareva ricondursi era nientemeno che quello salveminiano, e dei tempi in cui pensiero e azione non andavano disgiunti e il pensiero (o lo studio, la cultura) non era diventato un facile sostituto dell’azione, fino a essere vissuto da tanti come un disdicevole alibi.

Scrisse i suoi primi libri non ancora trentenne per L’ancora del Mediterraneo, una casa editrice forse troppo seria per sopravvivere a lungo: Un mare nascosto, su Taranto e il suo ras Cito e Le male vite: storie di contrabbando e di multinazionali. L’ideale trilogia composta da Uomini e caporali, sul caporalato in Puglia a partire da un’atroce storia di braccianti polacchi, da Il naufragio, sull’affondamento della Kater, e La frontiera, più in generale sulle tragedie dell’immigrazione, non ha soltanto un valore documentario, non si tratta soltanto di buone inchieste ma, secondo modelli che in Italia hanno avuto sinora poco seguito e che hanno avuto un loro maestro in Kapuscinski, e poi in Langewiesche, in Aleksievic, in Westerman e altri – opere di alto impegno letterario, le narrazioni che si sono rivelate le più efficaci a dire il nostro tempo, le sue contraddizioni e le sue violenze.

Collaboratore assiduo di più testate cartacee o digitali, molti lettori ricordano le sue analisi del momento politico, le sue letture della situazione nei Balcani, le sue corrispondenze da Tirana, i suoi interventi radiofonici per Radio3 (memorabili le corrispondenze del 2001 dal G8 di Genova, che andrebbero riascoltate…). E le sue partecipazioni a riunioni, incontri, presentazioni, manifestazioni, dibattiti. La sua innata gentilezza si univa a una schiettezza delle valutazioni e dei giudizi priva di aggressività, priva soprattutto dell’abituale e maledetto narcisismo che sembra essere diventato la molla di ogni posizione, che gli conquistava il rispetto e la fiducia anche in chi, in buona fede, non era d’accordo con le sue analisi. Non aveva ambizioni politiche, credeva più nel lavoro possibile, secondo l’«ostinato rigore» dei vecchi maestri, attraverso cultura e giornalismo e soprattutto nella vicinanza a chi soffre e chi lotta. Non solo a parole.

Negli ultimi mesi aveva pubblicato per le Edizioni dell’asino una breve e preziosa raccolta di testi di e su Pisacane, esempio della sua attenzione per la storia italiana e per quella meridionale in particolare e per quanto da essa ci fosse ancora da imparare, e stava lavorando a un’inchiesta tra Buenos Aires e Italia su alcune figure di complici del regime dei generali e i loro rapporti con l’Italia al tempo dei desaparecidos e dopo. Nella mia concreta esperienza di vita, ho raramente incontrato persone del suo valore, e la sola figura recente della nostra storia a cui mi sento di paragonarlo è quella di Alexander Langer, che Alessandro non ha conosciuto ma che ha molto letto e amato, e a cui lo accomunava una profonda coscienza cristiana e profondi ideali sociali (e socialisti).