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L’UE PUNTA SULLA FINANZA SOSTENIBILE

di Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica

La Commissione Europea ha recentemente approvato un Piano d’azione per finanziare la crescita sostenibile. Si tratta di una decisione e di un documento assai significativi, che testimoniano il consolidamento di una consapevolezza politica finalmente forte verso l’urgenza climatica e ambientale.

Il Piano di azione si prefigge l’obiettivo di contribuire alla “transizione verso un’economia a basso contenuto di carbonio” e alla costruzione di una “economia circolare”, perseguendo contemporaneamente “nuove opportunità di occupazione e investimento”, come condizioni per la “crescita economica”.

Non sfugge lo strabismo di fondo della visione sottostante, che cerca di tenere insieme gli auspicabili obiettivi di cambiamento del paradigma economico e la mancata messa in discussione del mito della crescita. Un passaggio culturale e politico che ha già fiaccato molti tentativi di riconversione ecologica condotti da governi di economie occidentali e che non potrà non minare la credibilità e l’efficacia anche di questo nuovo Piano di azione. Speriamo, ovviamente, di sbagliare.

D’altronde, una chiara messa a fuoco del modello di sviluppo perseguito sarà condizione necessaria anche per affrontare in modo non ambiguo il particolare punto di vista scelto dalla Commissione europea per questo Piano, ossia quello della leva finanziaria.

Dice il documento: “il settore finanziario è chiamato a svolgere un ruolo di primo piano. Il sistema finanziario si trova in fase di riforma per integrare quanto appreso dall’esperienza della crisi finanziaria e in questo contesto può costituire parte della soluzione verso un’economia più verde e più sostenibile…”. Anche qui, si sconta un discutibile assunto di fondo, ossia che il sistema finanziario abbia fatto tesoro dell’esperienza della crisi. Si tratta effettivamente di un’affermazione quanto meno ottimistica. Non è ad esempio ciò che pensa il Wall Street Journal, con il suo speciale report con infografica a 10 anni dalla crisi, dove si evidenzia che: le banche too big to fail sono ancora più grandi, le porte girevoli tra regolatori e regolati continuano a girare, le diseguaglianze sono cresciute, ecc.

Nondimeno, queste criticità di visione, che denunciano una sudditanza, un eccesso di timidezza, verso la finanza e il modello di sviluppo neoliberista, non minano la qualità e l’importanza del Piano di azione. Che nella sua ambizione e per l’ampiezza degli obiettivi potrebbe veramente diventare una pietra miliare della futura Unione Europea.

A partire dal notevole passo avanti nella definizione di “finanza sostenibile, che si libera di una certa retorica ecologista da salotto, sempre in odore di greenwashing, e si apre a tenere in “debita considerazione, nell’adozione di decisioni di investimento, i fattori ambientali e sociali”, precisando che “le considerazioni di ordine sociale possono fare riferimento a questioni di ineguaglianza, inclusività, rapporti di lavoro, investimenti in capitale umano e comunità” e che “le considerazioni di ordine ambientale e sociale sono spesso interconnesse...”.

Insomma, le migliori pratiche della finanza etica, un anno fa entrate nell’ordinamento italiano con l’articolo 111bis del Testo unico bancario, si apprestano ad entrare anche nell’ordinamento europeo. Un passaggio che potrebbe essere epocale.

Per dare concretezza a questa visione e accompagnare la transizione dei modelli e delle regole dei mercati finanziari, la Commissione europea ha definito una serie di passi, i capisaldi del Piano di azione:

  • nel secondo trimestre del 2018 la Commissione presenterà una proposta legislativa volta a garantire l’elaborazione progressiva di una tassonomia a livello dell’UE per i cambiamenti climatici e le attività sostenibili sotto il profilo ambientale e sociale;
  • la Commissione valuterà l’uso del quadro di riferimento delle “etichettature di prodotti verdi” (Ecolabel UE) per taluni prodotti finanziari;
  • nel secondo trimestre del 2018 la Commissione modificherà gli atti delegati delle direttive MiFID II e IDD per garantire che le preferenze in materia di sostenibilità siano tenute in considerazione nella valutazione dell’adeguatezza;
  • entro il secondo trimestre del 2018, la Commissione intende i) adottare atti delegati, in materia di trasparenza delle metodologie e delle caratteristiche degli indici finanziari di riferimento per la sostenibilità; e ii) proporre, un’iniziativa per armonizzare gli stessi indici di riferimento, compresi gli emittenti a basso contenuto di carbonio, sulla base di una metodologia affidabile per calcolarne l’impatto carbonio, da attivare una volta adottata la tassonomia per il clima
  • entro il secondo trimestre del 2019 la Commissione preciserà il contenuto standard dei prospetti informativi da uniformare per le emissioni di obbligazioni verdi;
  • entro il 2019, la Commissione valuterà la possibilità di adottare requisiti patrimoniali che riflettano più adeguatamente il rischio delle attività sostenibili detenute dalle banche e dalle imprese di assicurazione (c.d. green supporting factor).

Sono obiettivi ambiziosi e che nel loro insieme potranno veramente contribuire a dare un volto nuovo alla finanza europea.

Ma le esperienze di questi anni, laddove molti ottimi propositi normativi si sono spesso tradotti in regole malscritte a volte con effetti opposti a quelli auspicati, impongono cautela. E l’obbligo di porre grande attenzione a come verranno declinate le singole attività relative a ciascun obiettivo. Perché il diavolo è nei dettagli, e le lobby che contano a Bruxelles e Francoforte non  si sono finora distinte per interesse nella finanza sostenibile.

L’obiettivo in sé di fornire strumenti per indirizzare la finanza verso una maggiore sostenibilità è più che condivisibile, ma le spinte per allargare le maglie rischiano di essere fortissime. Da una parte per permettere di includere il maggior numero di settori e operazioni nelle agevolazioni previste, dall’altra – ed è un fattore altrettanto importante – per l’interesse di molte banche a migliorare la propria reputazione e immagine dichiarandosi “sostenibili” con il minimo sforzo e senza cambiare modello di business.

Per fare alcuni esempi, purtroppo l’esperienza recente mostra come spesso anche le grandi dighe vengano incluse tra gli impianti “verdi” al pari di altre fonti rinnovabili, malgrado i pesantissimi impatti sui diritti umani delle popolazioni locali e malgrado gli stessi danni ambientali (pensiamo alle infrastrutture connesse e alla creazione dei bacini artificiali). Sono altrettanto forti le pressioni per considerare il gas come un presunto combustibile “green” o comunque di transizione dal carbone/petrolio verso le rinnovabili. Il rischio è che anche progetti infrastrutturali con fortissimi impatti negativi – dal punto di vista sociale e ambientale per non parlare di quello geopolitico – come i grandi gasdotti possano rientrare in definizioni troppo labili.
Per questo è necessario tenere insieme e considerare di pari importanza la dimensione ambientale quella sociale e di governance; per questo occorre lavorare perché i paletti siano stretti e non siano ammesse eccezioni.

Ci vorrà un grande sforzo di tutti gli stakeholder e degli attori della finanza alternativa per seguire l’evoluzione e portare in modo decisivo il proprio contributo. Febea, la Gabv e le altre reti europee hanno una grande chance di incidere. Il Piano di azione della Commissione diventa inevitabilmente anche agenda per la lobby delle reti di finanza etica nei prossimi 24 mesi.

Elemento centrale, soprattutto per le attività bancarie, sempre più stressate dalle richieste di nuovo capitale, sarà l’approccio della Commissione al green supporting factor. In un suo recente documento, il CESE auspica che siano tenuti insieme il fattore green per i progetti sostenibili e quello brown per quelli inquinanti. Dunque un sì agli incentivi, se associati ad un sistema di disincentivi.

La questione è cruciale, perché è su tali particolari che si annidino i principali rischi di diluizione e di misure solo cosmetiche (greenwashing).
Per timore delle quali c’è chi si dichiara fortemente contrario a tali vantaggi patrimoniali per le banche. È la posizione della New Economics Foundation, noto think-tank inglese dell’economia alternativa, che diffida delle misure in proposta, calcolando che potrebbero generare dai 2 agli 8 miliardi di euro di risparmi patrimoniali per banche che, sostengono, hanno invece ancora bisogno di irrobustirsi per scongiurare nuove crisi.

La posizione è simile a quella espressa pochi giorni fa nel blog di Finance Watchil rischio è quello di mettere in qualche modo in competizione due esigenze, quella di muoversi verso una finanza sostenibile e quella di una solidità del sistema bancario nel suo insieme.

Il tema non è accademico. La diffidenza, la cautela, sono d’obbligo quando si ha a che fare con le grandi lobby finanziarie.
Però c’è l’altro lato della medaglia, che è la grande opportunità che si intravede dietro il Piano di azione: per le banche eticamente orientate, meno rischiose, con meno crediti deteriorati e con attivi molto più limpidi, eppure oggi penalizzate dai crescenti requisiti di capitale, e che per la loro natura low o non profit non accedono facilmente ai mercati finanziari e non attirano i grandi fondi globali, un green & social supporting factor sarebbe un correttivo fondamentale per ripristinare un piano di equità nel gioco concorrenziale (level playing field). Perché premierebbe il business model della finanza etica, naturalmente orientato verso attività ad impatto socio-ambientale positivo, e lo renderebbe, in termini relativi più convenienti. Proprio come si prefigge la Commissione europea.

Sarà utile allora fare tutto il possibile perché vengano prese le decisioni giuste e se ne implementino rapidamente le azioni necessarie. Una grande occasione per la finanza etica del vecchio continente.