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Finanza etica

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Nelle mani dei mercati

E’ da poco uscito il libro “Nelle mani dei mercati” di Alberto Zoratti, Monica di Sisto e Marco Bersani per EMI. Il libro è un supporto fondamentale per capire il TTIP e perché vada fermato.

La postfazione è stata redatta da Ugo Biggeri, Presidente di Banca Etica, la pubblichiamo anche sul nostro blog, per contribuire a far conoscere il tema e alimentare il dibattito.

Senza Società non c’è Mercato. È un affermazione logica, ma purtroppo non ovvia, anzi spesso non evidente o addirittura negata.
La somma di interessi individuali (persone o imprese che siano) non è sufficiente a creare un mercato. Nessuna forma di mercato. Infatti tra i tanti fattori che determinano l’esistenza di un mercato alcuni, fondamentali, dipendono dalla “piattaforma” su cui il mercato opera. Regole, opportunità, infrastrutture, propensione al rischio ed agli investimenti: tutte cose che dipendono da relazioni complesse e non posso essere determinate individualmente.

Un esempio chiarificatore riguarda la fiducia.
Di sicuro fidarsi degli altri implica un sistema di relazioni molto più ampio che uno scambio bilaterale. Della fiducia dei mercati spesso si parla a sproposito, come se dipendesse da divinità superiori, salvo poi cercare di stimolarla attraverso i comportamenti dei cittadini (consumatori).

La piattaforma che determina la fiducia… Siamo noi. È la società intesa nel senso più ampio possibile il cui buon funzionamento dovrebbe essere garantito dai governi.
Anche i mercati asettici e virtualizzati dell’high frequency trading (“regolati” da ordini generati dai computer) hanno effetti e sono influenzati da quello che succede nella società mondiale.
Eppure sono decenni che incessantemente il pensiero economico dominante tende ad ignorare o a vivere con fastidio le interazioni che dalla società arrivano al mercato.
Non il viceversa, che invece è sopravalutato.

Perché? Ci sono sicuramente tante ragioni, ma una di queste ê sicuramente dovuta all’evoluzione del pensiero economico e delle pratiche finanziarie degli ultimi anni. Un evoluzione che vede il profitto non più come un vincolo fondamentale per poter realizzare qualunque attività che abbia risvolti economici, ma che è divenuto obbiettivo unico cui qualunque impresa dovrebbe tendere. Questo sembra indicare che la migliore forma di impresa sia quella che agisce con la mentalità dell’investitore puro: in realtà, non solo una forma lontana dal vissuto della maggioranza degli attori economici, ma neanche auspicabile, perché in un mondo di investitori puri, mancherebbero… gli imprenditori e buona parte delle attività economiche.
Questo scivolamento del profitto da vincolo ad unico obbiettivo non è un aspetto secondario perché stabilisce delle priorità nel modo di fare impresa, ma più in generale stabilisce un ordine di priorità tra obbiettivi diversi dal profitto.

Ed il TTIP si inserisce decisamente in questa logica. Il problema del TTIP infatti non è dato dall’idea di favorire gli scambi, che può essere ragionevole. Ma dall’accanimento nell’individuare i governi, le leggi ed le azioni volte al miglioramento di standard sociali, ambientali e culturali, come un ostacolo al mercato. Il sistema di giudizio sulle dispute rappresenta il culmine di un aberrazione giuridica che vede le grandi imprese allo stesso livello (ma in realtà sopra) non solo delle piccole imprese, ma anche dei cittadini e soprattutto dei governi. Grandi imprese e pensiero economico che con una costanza intergenerazionale cercano di ottenere “l’indulgenza perpetua” che elimini dal rischio di impresa il “fattore umano”, le scelte della società.

Trovo che questo aspetto più di altri sia inaccettabile nel TTIP: fare impresa comporta capacità di lettura del contesto in cui si opera ed assunzione di rischi. Le autoregolazioni funzionano quando vi è separatezza tra chi fa le regole e chi le deve rispettare. Le autoregolazioni in cui solo una categoria di operatori determina le regole sono destinate a dare pessimi risultati e gli scandali finanziari che hanno coinvolto la finanza mondiale in questi anni ne sono un chiaro esempio. Occorre che siano attori diversi ed indipendenti a determinare le regole senza rischi di “ritorsione” : è un campo di attività che deve guardare ad interessi collettivi, tipico delle forme di governo, presenti ed auspicabili. Lo dico da banchiere che opera nella finanza etica e si trova ad operare in un sistema sovra regolato per le piccole banche, ma che riconosce il valore fondamentale del sistema regolatorio, della necessità di un sistema di controllo interno ed esterno che aiuti a far bene impresa.

Il TTIP assomiglia alla pretesa di poter “picchiare” l’arbitro o le autorità in caso di regole che modifichino, per il bene di tutti, il gioco. Non si può fare nello sport, non si poteva fare da bambini. È buon senso che come cittadini ci mobilitiamo oggi perché non lo possano fare in futuro le grandi imprese.