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Workers buyout, miracoli italiani dai lavoratori

In collaborazione con Corrado Fontana, giornalista di Valori.it

Imprese come la Cartiera Pirinoli di Cuneo, la Bontempi iCom di Potenza Picena (Mc) o la WBO Italcables di Caivano (Na) non sono imprese come le altre. Attive soprattutto del settore manifatturiero, erano fallite eppure oggi sono rinate. Erano fabbriche di un “padrone”, gestite da manager professionisti, finite in disgrazia, ma sono tornate a produrre. E come loro in Italia ce ne sono oltre cento, capaci di coinvolgere direttamente 8mila lavoratori,  interessandone addirittura 15mila grazie all’indotto, per un fatturato superiore a 200 milioni di euro l’anno. A possederle, a deciderne strategie e destino, è oggi però solo chi ci lavora, perlopiù operaie e operai. Che se le sono ri-comprate con un unico comune obbiettivo: rimanere sul mercato e mantenere l’occupazione.

Queste imprese si chiamano “fabbriche recuperate” o workers buyout (spesso anche dette WBO o, guardando all’originale esperienza Argentina, empresas recuperadas por trabajadores). Ciascuna con le sue particolari vicissitudini ma tutte con una storia che vale la pena raccontare.

E sui workers buyout – formula con un’accezione più collegata alla finanza d’impresa e ai processi di acquisizione, rispetto a quella di “fabbriche recuperate”, focalizzata sull’autogestione dei lavoratori – Banca Etica è senz’altro l’istituto che in Italia sta scommettendo con maggiore convinzione. E non solo a parole, considerato che tra 2011 e 2018, cioè l’anno dei primi progetti di finanziamento per la D&C Modelleria e Greslab, e quello degli ultimi WBO finanziati (Alluminium Tec, Sportarredo e Gazzotti), le imprese salvate sono state ben 37. Con un impegno forte che ha dato la vita a nuove cooperative per oltre 950 soci lavoratori. E investimenti che, per le aziende più grandi, hanno raggiunto e superato i 2 milioni di euro, erogando complessivamente quasi 10 milioni di euro di fidi iniziali, cresciuti di valore fino ai 16 milioni di euro attuali.  

Denaro che ad oggi sembra ben speso a vedere le tante storie di rinascita e lavoro che possiamo raccontare. Storie che traggono origine ben prima della crisi che queste società ha colpito, cioè quando venne pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, nel 1985, la legge n°49, detta anche “legge Marcora”. Associata al nome del suo propugnatore Giovanni Marcora, partigiano e poi democristiano, ministro dell’industria nel 1981, durante il governo del repubblicano Giovanni Spadolini.

In Italia la parabola dei workers buyout è iniziata così. La legge 49/85 ha infatti messo a disposizione strumenti finanziari di supporto per i lavoratori di un’azienda in crisi che decidano di formare una cooperativa. Operazione sempre travagliata ma necessaria per far ripartire l’attività. Poiché per prima cosa questi dipendenti sono costretti a farsi imprenditori di sé stessi, costituendo la cooperativa industriale o di lavoro che sarà il fondamento di una nuova società. E la cooperativa acquisisce – ma più spesso all’inizio si limita ad affittarlo – un ramo d’azienda, così da poter accedere ai finanziamenti di FonCooper: il fondo nazionale legato alla legge Marcora, annualmente rinnovato, preziosissimo perché offre l’opportunità di vedersi raddoppiato il capitale sociale iniziale. Che altrimenti non basterebbe a ricomprare l’impresa, essendo costruito investendo “soltanto”, in anticipo e interamente, l’indennità di mobilità dei dipendenti, la NASpI. Quando non abbia bisogno di venire integrato con qualche risparmio.

Il nulla osta al finanziamento del fondo non è però automatico. Dipende dalle valutazioni che vengono svolte da due cooperative in Italia, Cooperazione finanza impresa (Cfi) e Soficoop, cioè i veri investitori istituzionali che operano per conto dello Stato. Un passaggio critico durante il quale viene considerato il piano industriale, cioè il progetto di rinnovo della fabbrica. E solo se il report finale è positivo il percorso prosegue e la nuova impresa può ricominciare a lavorare.

Perché il problema principale che hanno queste società è l’accesso al credito: spesso non vengono riconosciute come realtà in grado di dare delle garanzie. «La finanza – sottolinea Romolo Calcagno, studioso della materia e fautore del portale impreserecuperate.it – non ha dato sicuramente l’apporto dovuto, tranne per quanto riguarda le banche che hanno un’etica nella mission, e le forme di mutualismo. Le grandi centrali cooperative e Banca Etica».